Quaranta anni fa esatti – l’8 maggio 1982 – moriva in un drammatico incidente a Zolder, Gilles Villeneuve. In occasione della ricorrenza lo ricordiamo così, attraverso le parole di Luca del Monte e Umberto Zapelloni che ricordano il numero, quello che, con lui, è entrato nella leggenda.
“Io non cambierò certo il mio modo di pensare e di agire. Cercherò sempre di dare il meglio di me e se questo mi porterà alla vittoria, sarò molto contento.” Gilles non si lascia abbattere da un anno trascorso a litigare con una macchina fragile e inguidabile. Continua a sognare di diventare campione del mondo. Anzi, in un’intervista concessa in Inghilterra, confessa di voler diventare addirittura “tre volte campione del mondo, come Jackie Stewart.” Confida nelle sue qualità e punta tutto sulla nuova Ferrari, con il motore Turbo che ha assaggiato alla fine della stagione precedente e portato in pista a Fiorano già a gennaio. La 126 C viene indicata come l’auto della riscossa. Ma la riscossa vera arriverà solo con la 126 C2. Troppo tardi per Gilles.
Quando comincia l’avventura Turbo non ci sono sirene che tengano. Villeneuve resta fedele al Commendatore Enzo Ferrari che ormai lo ama come se fosse un figlio. Il Mondiale 1980 ha fatto scivolare la Rossa al penultimo posto della classifica Costruttori con soli 8 punti, e le regole che distribuiscono la numerazione delle vetture in base ai piazzamenti dell’anno precedente assegnano alle due monoposto di Maranello il 27 e il 28. Così, per caso, nasce quell’abbinamento tra Gilles e il 27 che diventerà un marchio di fabbrica.
Il 27 era apparso sulla carrozzeria delle auto di Maranello al Gran Premio di Monaco del 1970, ma Giunti, per il quale era stata iscritta la vettura, non prese parte alla gara. Il 27 esordì un mese dopo in Belgio con Jacky Ickx, che chiuse all’ottavo posto, dopo esser rimasto in zona podio per 21 giri. A portare il 27 sul podio fu Clay Regazzoni al Gran Premio d’Austria di quello stesso anno. Clay, che guidava la terza Ferrari al via, chiuse al secondo posto dietro al compagno di squadra Ickx. Regazzoni vinse il Gran Premio d’Italia a Monza due settimane dopo, ma la sua Ferrari quel giorno portava il numero 4. Gilles fu il primo a vestire il 27 per una stagione intera. Un numero che divenne mitico, simbolo e sinonimo di velocità.
Qualche anno dopo, quando lo portò in pista anche Michele Alboreto, il “Rosso 27” divenne addirittura il titolo di una trasmissione di successo di Rai 2 con Ezio Zermiani, il prototipo di tutti gli inviati ai box. Quando furono assegnati i numeri nessuno poteva prevedere che il 27 stava per diventare un numero storico per Gilles e la Ferrari, tanto che nelle stagioni successive Maranello convinse la FIA a mantenere il 27 e 28 per le sue vetture. Gilles lo fece diventare mitico e con quel numero corsero poi Tambay, Alboreto, Mansell, Morbidelli, Larini e Giovannino Alesi, che lo portò al successo proprio in Canada sulla pista dedicata a Gilles nel 1995.
Il tributo più alto al numero di Gilles lo ha però sicuramente dato suo figlio Jacques, che con il 27 ha conquistato la 500 miglia di Indianapolis nel 1995: la sua Reynard Cosworth-Ford del Team Green non è rossa come la Ferrari di papà, ma bianco e azzurra. Quel numero però significa tanto, come il casco che Jacques aveva indossato all’inizio della sua carriera prima di passare a quello che lo ha accompagnato al Mondiale. Il 27 poi lo ha rimesso sulla Ferrari 488 GT3 della Scuderia Baldini con cui nel 2019 ha gareggiato nel Campionato Italiano Gran Turismo.
“Ha fatto del numero 27 il più amato e della vettura che lo portava la più seguita del mondo. La gente era davvero pazza per lui – ricorda Antonio Tomaini, che è stato il suo ingegnere di pista. “Gilles non era un pazzo, in pista faceva certe cose perché si divertiva a guidare. In gara non gli interessava se era primo o ultimo, a lui interessava andare sempre più veloce e sorpassare più gente possibile. Una volta, a Long Beach, continuava a girare anche se le gomme erano ormai lise. Gli mettemmo il cartello IN e lui niente… continuava a girare. Quando rientrò ai box gli chiedemmo perché era rimasto in pista così tanto e lui ci rispose: ‘La macchina scivolava a destra e a sinistra e mi sono divertito a guidare con le gomme finite. Troppo divertente’. Con lui non ci si annoiava mai. Non sono sicuro che sarebbe riuscito a diventare campione del mondo, ma a chi importa, lui era un campione semplicemente per come faceva certe cose in pista. Era capace di stare seduto nella sua Ferrari per ore senza uscire. L’auto era il suo ambiente naturale, era come una parte del suo corpo.”
* Testo tratto dal libro “Gilles Villeneuve. L’uomo, il pilota e la sua leggenda”,
Baldini + Castoldi editore.